Cinquantotto, il regalo

Spread the love

Il 58 è Marco Simoncelli.
(Oh, Sic.
Diamine. Non ti scordare. Se passi. Noi ci si libera.
Cioè. Non è che siam buoni a fare il solletico ai cordoli. Magari Pietro. Appena appena.
Ma per tirar su il casino. Per quello. A me, Pietro, Marco, Andrea e Luchino.
L’è cum dì putèna).

[…]

1.
Cosa ne so.
Io, poi. Che il culo su un motorino non ce lo metto da quando avevo diciassette anni. Io, poi.
Che lei, lei una volta mi disse futuro e io. Io. Era stato.
Amore, le dissi, sapessi almeno cantare una canzone. Le dissi.
Alle due di notte, stanotte, l’hinterland di Milano riposava nel silenzio assoluto.

2.
“Su per giù ci siamo”, ha ribadito Pietro alle perplessità di Andrea. Poi via. Un sorso di birra, che mi modifica il timbro e mi fa diventare la voce uno struscio di carta vetrata. Marco ha attaccato il pezzo e noialtri dietro. I suoni attutiti per la mancanza di amplificazione hanno garantito discrezione pressoché totale.

3.
Lì ho fermati. A un certo punto li ho fermati. Cazzo ne so. Io, poi. Cazzo mi frega dei retroscena di Massimo e Alice. Che i baci degli amanti – dice Andrea – che i baci degli amanti sono speciali per natura propria. Anche d’autunno. Che l’amore, dice Andrea, che l’amore non se ne sta certo a curarsi del tempo.

4.
Luna luna luna. In mezzo alla taverna. Luna luna luna ripetuto più e più volte. Amore. In mezzo alla taverna. Amore. Sapessi almeno cantare una canzone. Poi Marco. Luchino, Pietro. Per ultimo Andrea. Un viaggio di venti minuti tutto in apnea.

5.
Il cellulare. Alle tre men’un quarto il cellulare di Marco. Che non cagasse il cazzo, Fernando, proprio adesso. Marco non ha risposto.

6.
Sessanta giorni, ha raccontato Andrea. Sessanta giorni a Phnom Phen lunghi e incancellabili. Come le scie degli aerei dipinte su tela. Nessuna prospettiva futura tra immense risaie circondate da cielo e basta. Grandi, le risaie, come le piaghe che dal corpo di Palli, quattro anni e malata di aids, non andranno mai via. Vaste spianate di strade sterrate, ha raccontato Andrea, e a tratti impercorribili come gli occhi di Mari, tre anni e mezzo vissuti senza avere madre nè padre.

7.
Adesso, ha detto Luchino, adesso sto in via Da Recanati. L’affitto, ha detto lui, mi costa 600 euro al mese. Quasi mezzo stipendio. E l’8 novembre, ha fatto Luchino, l’8 novembre scioperiamo tutti. Non se ne può più. Ogni luna è atroce e ogni sole amaro. E’ diventato uno schifo, ha detto lui.  Uno schifo, ho fatto io. Invece a Pietro non gli frega. Solo passi, dice lui. Passi veloci e passi lenti. Al solito. Orme che segnano la via.

8.
Uno strazio. Di nuovo a suonare. Poi gli altri. Gli altri poi si sono fermati. “Cazzo fai – mi hanno detto gli altri – cioè. Non becchi neanche una nota”. Cosa ne so. Io, poi.
Io pensavo. Era stato. Lei quando mi disse: non lasciarmi la mano mai più. Stringila, baciala, tienila vicino e non mi lasciare. Poi piangeva, poi singhiozzava.

9.
Che Andrea, adesso, sul comodino tiene un libro di Amado. E quando lo ha visto Sonia, ha detto Andrea, Sonia gli ha chiesto chi fosse. Quel tizio del libro sul comodino.

10.
Le luci della città, ha fatto Marco, le luci della città certe volte le vorrebbe tutte spente. E nel suo paese di dieci chilometri quadrati. In mezzo a quello sputo di terra, dice Marco, le colate di cemento hanno rotto i coglioni. Pietro gli ha detto che dice così perché è un provinciale. Come quelli lì, Marco. Pietro gli ha detto che fa come quelli che vorrebbero seguire la luna con gli occhi per poi limitarsi a guardare il dito che punta la luna.

11.
Io. Io di libri non ho quasi parlato.
Cosa ne so, io. Luchino, semmai. Luchino legge Pasolini e parecchia letteratura latina. Qualcosa di Ammaniti e i thriller americani, qualche autore francese scoperto in biblioteca. Dice lui. Scoperto in biblioteca grazie a Laura che stava facendo il servizio civile.

12.
Marco, lui sì. Gli scontri di Roma, Marco li aveva visti per buona parte del pomeriggio di quel sabato là. Dalla tivvu sembravano invasati, ha detto Marco. Sembravano invasati ma lui non è mica tanto sicuro che lì. Che lì la polizia, dice Marco, non potesse prevenire. Che loro, secondo Marco, loro lo sapevano già. Ma lui, dalla tivvù. Lui ogni tonfo che sentiva gli sembrava un colpo di proiettile.

13.
Amore. Alle tre e venti riuscivamo a sentirci solo noi. Amore, in mezzo alla taverna. Sapessi almeno cantare una canzone ti direi di un uomo solo che cantava luna luna luna. In mezzo alla taverna, mentre fuori il cielo anneriva ancora.

14.
Tartine al salmone. Rustici con alici. Poi un cous cous di verdure guarnito con pinoli e una torta di fagioli, ricetta di famiglia. Pietro era stato a cena dai genitori di Alessia. Padre medico, madre casalinga. E allora lui, ha detto Marco a Pietro, lui Pietro l’avrebbero preso a calci se non si fosse dato una mossa a mettere su famiglia. Che Marco, gli ha fatto Pietro, che Marco sei il solito idiota. E perennemente senza la donna.

15.
Mio padre, gli ha risposto Marco, dev’esser colpa di mio padre che lui. Anche lui con le donne gli dice male. E allora io. Allora io, ha detto Marco, io che vado con lo zoppo arrivo in ritardo. Ha detto Marco. Arrivo in ritardo ma sono giustificato. Che sto con lo zoppo, ha detto Marco.

16.
Invece lui no, ha detto Andrea. Lui l’altra sera mentre Sonia stava finendo di studiare le ultime tre pagine per l’esame di diritto privato gli ha buttato le braccia intorno al collo e lui, Andrea, ha sentito come una scossa.

17.
Io. Io cosa ne so. Che lei.
Futuro, mi ha detto lei. E io, futuro.
Io, poi.
In mezzo alla taverna, luna luna luna. Futuro, le dissi poi. Non sono sicuro.

18.
Luchino, lui. Luchino era stato con Rebecca sulla Muzza. C’erano ancora i pesci che facevano fuochi d’artificio in mezzo all’acqua e l’erba era un letto con lenzuola di seta che si conformavano ai corpi dinamici.

19.
Io, poi. Io che ne so. Che a un certo punto della vita recente, io.
Mi ero disilluso. E basta. E il mare blu e il sole giallo e l’erba verde e le dolci attese. Che andassero per l’ennesima volta a fare in culo.

20.
Giovanni, ha detto Andrea, Giovanni l’ho rivisto e mi è sembrato stressato. Dice che c’è la fila di immigrati nel suo ufficio. E che ripete a tutti la stessa cosa: non è tempo di sanatorie.

21.
Di tutti i colori, ha detto Marco ad Andrea. Ma abbiamo sentito anche Pietro e io. Se mio nonno è partito da Pescara per l’America, ha fatto Marco, significa che i migranti sono di tutti i colori.

22.
Che lui, ha detto Pietro. Lui appena prima di conoscere Alessia era in crisi. Che noi lo portavamo a pesca, Pietro. Ma Pietro ci ha detto una cosa che non sapevamo. Lui, ha detto, lui certe volte gli era capitato di guardarsi allo specchio e di vedere riflessa solo una natura morta.

23.
Io.
Cazzo posso farci se non ho azzeccato una nota. Cioè, è vero.
A volte mi sono estraniato. Che a un certo punto, io. A me è venuto in mente che lei. Mi aveva sussurrato parola per parola nell’orecchio. Come in cassaforte. Abito nei tuoi fianchi, mi aveva detto. Abito nei tuoi abiti nei tuoi occhi.

24.
Che sua madre, ha detto Luchino, che sua madre ha un tumore al pancreas. E non si può fare nulla. Che lei ha qualche mese di vita. E lui. Lui certe volte che fa gli incubi alla notte, lui sogna un groviglio di strade che girano tutt’attorno e non portano da nessuna parte. E lui, Luchino, lui ha detto che forse di notte, quando fa gli incubi, lui sogna il pancreas.

25.
Sonia con Andrea, ha detto Andrea, che lui le ha chiesto di sposarlo. E allora ha preso un anello coi diamanti e glielo ha dato al concerto dei Muse. E Sonia ha detto che sì. Che lei, ad Andrea, se lo sposava tutta la vita e cent’anni ancora. E mentre Sonia piangeva, ha detto Andrea, lui non voleva essere da nessun’altra parte. Ha detto Andrea.

26.
Marco no.  Marco ha detto che lui ne ha le palle piene. E quella volta a Treviso è stata l’ultima. Quando stava con Anna, ha detto Marco, di Treviso a un certo punto non ne poteva più. Perché Anna, ha detto Marco, gli controllava ogni minima cosa. E alla fine, ha fatto lui, alla fine gli ha detto che non poteva fare tardi tutte le sere. “Se non torni – gli ha detto Anna – non funziona. Se non programmi, non torna”. E lui, ha detto Marco, lui allora poi non è più tornato.

27.
E io. Cazzo ne so, io.
Che il culo su un motorino non ce lo metto da quando avevo diciassette anni. Perché Luchino ha detto che lui una settimana fa. Lui è caduto con la moto ma non si è fatto niente. E allora. Allora poi, che l’ha portata a riparare, gli hanno detto che sono quasi due mila euro di danni. Ma io. Cosa ne so di come si cade senza farsi male. Io. Che a calcetto mi sono rotto tre volte il ginocchio.

28.
Allora, ha fatto Pietro. Allora salute per quella volta al liceo che in gita mi sono scopato la Clara. E io avevo già iniziato a bere che Andrea gli ha ricordato che anche lui. Anch’io, ha fatto Andrea, mi sono scopato la Clara. Allora Pietro ha guardato noi tre. Ma noi niente, noi gli si è ribadito che dentro Clara non c’eravamo mai stati.

29.
Il suo capo, ha fatto Luchino, il suo capo è uno stronzo perché non paga gli straordinari e gli dice che lui. Che lui è fortunato ad avere quel lavoro là. Che lui, gli ha detto il capo, se lo tenesse stretto. Ma Luchino, al capo, gli vorrebbe sputare in faccia.

30.
Che una volta. Una volta volevamo andare in Spagna per vivere a uno schioppo dalla spiaggia e quando eravamo a Scopello. A Scopello pisciammo nella neve con un freddo boia alle mani. Poi, ha detto Marco che la neve dove pisciavo io non si scioglieva mai.

31.
Tu Pietro, disse Luchino in prima liceo, tu suoni la batteria che hai le braccia più grosse. Che lui e Andrea stavano alle chitarre e Marco al basso. Ma il basso, Marco, lui non lo voleva suonare. Che il basso, sosteneva Marco, è da sfigato.

32.
Io no. Diceva Luchino quando facevamo le serate. Che mio padre lavora in banca ma quella vita è una merda. Che io ho non ho voglia di far di conti seduto a una scrivania. Io, diceva Luchino, io devo vedere il mondo. E quando la banca del padre gli offrì un contratto a progetto, Luchino ci disse che lui. Che lui forse non doveva rifiutare.

33.
Amore. Sapessi almeno cantare una canzone. Che io.
Io cosa ne sapevo dei legami per la vita. Che tu, diceva lei, tu sei un cinico insensibile. E allora. Io a Eboli la piantai lì alla stazione dei pullman. Che io. Cazzo ne sapevo di come si portava avanti un rapporto. Che a me. A me anche alla pratica della scuola guida, una volta, mi hanno bocciato.

34.
Allora, ha detto Marco, allora per questo mi sono fatto un tatuaggio. Sul braccio. Cioè, che lì – ha detto Marco – c’è il nome di Anna. Ma Anna, lei mica lo sa. Che lui, Marco, lui poi non l’ha più vista. Però, ha detto Marco, certe cose uno non se le deve scordare mai.

35.
Il 19, il 27, e il 58. Che la madre di Pietro gli aveva detto che lei. Aveva sognato il marito che tornava con un pacco per suo figlio. E lei, quando sognava, lei poi giocava il lotto. Allora: che il 19 era il marito. 27 il ritorno. 58 il regalo. Che lei, se vinceva, a Pietro poteva regalargli la batteria. E Pietro era andato  in via Dante per giocare la schedina. Ma poi – sua madre – poi il marito non era tornato, alla schedina non le era uscito neanche un numero e Pietro cominciò a consegnare le pizze. Dopo un anno di cartoni a domicilio col motorino, Pietro dopo un anno aveva messo da parte solo trenta mila lire. Che il padre, Pietro, il padre non l’ha mai conosciuto e che lui, il padre, se n’era andato che la moglie era già incinta. Allora, Pietro, poteva suonare solo le batterie degli altri e delle sale prove. E lui, Pietro, lui quando sognava si svegliava a notte fonda e e non vedeva l’ora che arrivasse mattina. Che suo padre, almeno, a sua madre aveva complicato la vita ma le aveva lasciato la cascina.

36.
Luchino e Andrea la chitarra ce l’avevano già. Invece Marco, poi Marco il basso lo comprò e si mise a suonarlo. A me bastava la voce, che di canzoni, io. Di canzoni ne avevo a centinaia. Scritte sui fogli A4 e sul banco della scuola. Scritte sugli scontrini del supermercato e sulle suole. Dentro alla metro me le scrivevo sulle braccia.

37.
Andrea si era precipitato. E vennero anche Marco e Luchino. Pietro era già lì. Perché io, quando è morto mio padre, io non avevo che mamma e mia sorella. E poi, poi c’erano loro. Che a dodici anni, anche loro, lo sapevano già che mio padre poi non è che lui si sarebbe svegliato.

38.
Luna luna luna, in mezzo alla taverna.
Amore, sapessi almeno cantare una canzone. Ma quella roba lì, che è l’ispirazione, stanotte ce l’avevano solo Pietro e Marco. Nemmeno Andrea era ispirato. Allora Luchino ha detto, vabbé. Cioè, almeno beviamo.

39.
E noi. Quella volta che Marco lo stavano riempiendo di botte noi allora ci siamo buttati. Che Andrea è finito in ospedale e gli hanno medicato l’occhio. E lui, Marco, quella volta lui aveva ragione. Ma noi. Noi comunque ci saremmo buttati. A torto o a ragione.

40.
A Capodanno, nel 1995, io e Andrea eravamo le maschere del cinema di corso Lodi. E per ogni serata ci davano diecimila lire. Allora, con i soldi di Capodanno, io avevo messo da parte 80 mila lire e Andrea. Andrea solo cinquanta. Che Andrea, i soldi, gli servivano anche per comprarsi le sigarette. Ma i genitori, delle sigarette, loro non sapevano niente.

41.
Che Andrea, nella versione di greco. Andrea prese un altro 4 perché lui, tanto, lui voleva fare il volontario in Africa e in Asia. E allora, lui, il greco lui cosa lo imparava a fare. Che preferiva studiare le piramidi e i film di brus li.

42.
Luchino era stato il più veloce. Che suo zio, a Luchino, lui gli dava trentamila lire ogni domenica perché gli gestiva la bancarella di verdura al mercato. E allora, Luchino, lui in tre mesi aveva già la sua parte di soldi. Però lui, diceva Luchino, lui al mercato voleva andarci anche dopo perché suo zio, alla domenica, poi suo zio gli dava trenta mila lire.

43.
Che Marco. Marco si era messo a fare il pierre di una discoteca. E una sera, lui una sera aveva portato chissà quanta gente che a scuola. Poi a scuola lui ci aveva fatto vedere che i soldi li aveva. Ma invece sua madre. Poi sua madre ci aveva invitato a casa di Marco e a cena aveva detto che lei era contenta di avergli dato settanta mila lire a Marco. Che per Pietro, la batteria, era proprio un bel regalo.

44.
Mettemmo centocinquanta mila lire a testa. E altre duecento le mise la mamma di Pietro. Che il padre, Pietro, il padre non ce l’ha mai avuto. Allora, poi, a comprare la batteria sono andati Marco e Luchino. Che nemmeno Andrea, di quelle cose lì, ne capiva poi molto.

45.
Io forse devo partire. Andrea ha detto stanotte che lui forse deve andare in Angola per un progetto educativo. Che Sonia, però, Sonia gli ha fatto che lei, con Andrea, lei andrebbe in capo al mondo. E che tanto, in Angola, lei Sonia potrebbe imparare il portoghese e visitare la casa di Agostinho Neto. E Andrea, Agostinho Neto, poi ha visto su wikipedia che è stato un poeta.

46.
Io, poi. Io cazzo ne so.
Cioè, alle 17.33 ero già in piazzale Loreto ma lei, in piazzale Loreto, non c’è mai venuta. E io. Io poi avevo il dubbio che al telefono le avessi detto alle sei del pomeriggio di un altro giorno. Invece quello era un mercoledì e lei. Lei, quel mercoledì lì, a piazzale Loreto non c’era.

47.
Che noi, da Marco, noi durante l’erasmus siamo stati a Lisbona da lui. E viveva con altre cinque persone in una casa dello studente. E lui ci ha portato a Figueira da Foz che c’era l’oceano con le onde alte che il bagno. Il bagno mica si poteva fare, con quelle onde lì.

48.
E Pietro, allora, Pietro fece che lui quella cosa mica la poteva accettare. Che noi eravamo dei pazzi. E allora, Luchino gli disse che lui, quella cosa lì, non è che doveva accettarla. Cioè, lui doveva imparare a suonarla come Billy Cobham.

49.
Io, poi. Io cazzo ne sapevo.
Che lei, lei dopo due mesi avrebbe scritto un messaggio.“Forse ti sono mancata”.
Che io, prima del messaggio, io stavo di merda. Ma dopo il messaggio, dopo il messaggio io poi mi sono sentito decisamente meglio. Allora le ho fatto: “Come ce li vedi due sagittari al concerto dei La Crus?”. E lei. Lei dopo mi ha risposto che lei, due sagittari, li vedeva bene ovunque. E io, allora, di merda non ci sono stato più.

50.
Andrea ha detto che sono le quattro. E Marco, a me, che io. Io sono un coglione. Che nessuno passa più di un’ora a cercare le parole. E a ‘sto punto, gli ha fatto Luchino, allora facciamo mattina. Che tanto, Luchino, lui è l’unico che lavora di pomeriggio. Però poi anche Pietro ha detto va bene. Facciamo mattina.

51.
Che poi. Ha fatto Marco. Poi non è che uno nella vita decide sempre qualcosa. Cioè. Che uno, poi, per la maggior parte del tempo, poi lui in effetti non decide proprio un bel niente.

52.
Io. Cosa ne so, io.
Che non è che si sta sempre bene. E uno, uno alle volte poi sta male che gli vengono le parole ma poi, quelle parole lì, non è che quando uno sta bene poi gli vengono ancora. E io.
Io cazzo ne so. In mezzo alla taverna, a me, quelle parole lì stanotte non mi venivano più.
Io gliel’ho detto. Che a me, quella volta, io ce le avevo ma adesso. Adesso, quelle parole non ce le avevo più. Cioè, poi dopo. Dopo lei era tornata, gli ho detto. E io.
Cazzo ne so, io. Cioè, lei era tornata ma quelle parole lì. Allora quelle sono andate via.

53.
Che allora, ha fatto Andrea. Allora che cazzo suoniamo se non abbiamo la canzone. Che uno, ha fatto Marco, non è che uno può portare in giro una canzone con sei parole. Amore, ha fatto Marco, sapessi almeno cantare una canzone. Cioè. Che una cosa così, ha detto Pietro, una cosa così non può farla nemmeno Bru Sprinstin. Però io ho risposto che non erano sei parole. Che Pietro, ho fatto io, ti sei scordato l’uomo solo che cantava luna luna luna. E lui, allora, lui Pietro si è buttato per prendermi a pugni sulle spalle. Che io, poi, anch’io lo prendevo a pugni. E dopo anche Marco e Andrea e Luchino. Che anche loro si sono buttati. Ma poi, ridevamo. Tanto ridere che  le mascelle facevano più male delle spalle. Però, ha detto Pietro. Occhio a non spaccare niente. Che la madre è qualche giorno da sua madre, ma non è che non torna mai più. Cioè, ha detto Pietro, su questo punto mi sembra di avere già dato.

54.
“Puntare per puntare – era scritto sul biglietto – abbiamo fatto noi. Che certi 19 è meglio perderli che trovarli. E alcuni 27 – gli scrivemmo – alcuni 27 sono come i conti che non tornano mai. Cinquantotto, il regalo. E stavolta s’è vinto. In culo ai Monopòli”. Allora Pietro. Io Pietro, con quell’espressione lì da inebetito, poi in vita mia non l’ho mai più visto.

55.
Cioè, mi chiese Andrea che eravamo in università. Tu, come pensi a tuo padre.
Che io, ad Andrea, avevo paura di dirgli come pensavo a mio padre. Ma poi glielo dissi.
Io, gli dissi, cazzo ne so.
Ci penso spesso. In tanti modi. Però io quando penso davvero a mio padre, dissi ad Andrea, ci penso in silenzio.

56.
La periferia è radice di un albero le cui foglie vengono messe in vetrina dopo ventate di chimica. La storia antica che diventa roba vecchia. Un reperto archeologico di cui non frega niente a nessuno. Tanto arriva l’Expo.
Cioè, ha fatto Luchino, ma allora noi sabato che cazzo suoniamo? Nemmeno un pezzo nuovo? Non ha parlato nessuno. Solo Pietro, a un certo punto, col medio e l’indice di entrambe le mani si è messo a percuotere su tre zone distinte del tavolino: un riff di batteria su ipotetici timpano, piatto, rullante. Tre suoni distinti che hanno sintetizzato. A modo suo, Pietro: nemmeno. Un pezzo. Nuovo.

57.
Che lui, Pietro, lui poi un giorno scrisse quattro biglietti uguali per tutti. E li spedì per posta.
“Fanculo la terzina perdente se con un numero hai vinto per sempre. Senti che roba, giù ai Monopòli: sono ansimi o gemiti?”.

58.
Io, poi.
Io. Cazzo ne so. Cioè lei, voglio dire.
Che le scosse di Andrea io forse non le ho mai sentite e io, io quando ci buttiamo sull’erba a me le pietre mi arrossano la schiena e non mi è mai sembrato che ci fossero lenzuola di seta. Però. Cazzo ne so. Cioè, alla fine lo so.
Che io. Io quando lei mi dice vieni qui io poi sono già lì.

© Riproduzione riservata

2 commenti su “Cinquantotto, il regalo”

Lascia un commento